L’arte è un incontro. Mette di fronte chi crea e chi osserva, ascolta, fruisce. Li stimola a comunicare, a volte in estemporanea, altre in differita. È un dialogo costante, ripetibile ma sempre nuovo. Non si può entrare due volte nello stesso fiume, diceva Eraclito, a indicare che il fiume, i suoi argini, in apparenza erano sempre uguali a se stessi ma l’acqua scorreva e dunque cambiava di secondo in secondo. Lo stesso vale di fronte a un’opera d’arte. Le sensazioni che ci dà cambiano ogni volta a seconda del nostro stato d’animo. Così possiamo stupirci, commuoverci, riflettere, ricordare, aggiungere qualcosa a questa conversazione costante, eterna e sempre diversa tra noi e l’arte.
Fabrizio D’Ottavi è un Maestro d’Arte. Certificato. Ma non è tanto la carta a dirlo, quanto la sua stessa vita, testimonianza di una ricerca costante, di una curiosità allegra e attenta che lo spinge a sperimentare sempre. A chiedersi cosa accade spostando l’asticella sempre un po’ più su. Un artista che ti prende in contropiede. Lo fa partendo dal dato concreto, reale. Dalle cose. Oggetti di vario genere si svestono dei ruoli quotidiani e consueti e diventano occasione di contatto. Non si nascondono trasfigurandosi, continuano a chiamarsi col proprio nome ma giocano a parlare, a dirci un mondo di sfumature che ci erano sfuggite. Sarà perché Fritz, il suo nome (guarda caso) d’arte, ha cominciato anni fa a collezionare il cosiddetto modernariato, oggetti quotidiani del recente passato. E non si è trattato a mio avviso di passione verso il retrò, il vintage fine a se stesso. Piuttosto è stata la voglia di non dimenticare, di capire da dove veniamo partendo da quello che usiamo normalmente. La vita vera.
Tecnicamente con modernariato si intendono mobilia e oggettistica che va dai primi del Novecento fino alla seconda metà del XX secolo, periodo in cui nacque anche l’Art Deco, che ha combinato vari stili e, negli anni sessanta, l’affermazione dello stile lineare e essenziale dei mobili nordici, disegnati da architetti danesi, norvegesi, svedesi. Ma il modernariato è anche gusto e costume più in generale: mobili, libri, riviste e altro. Fritz si tuffa in tutto questo e lo sporca di sé. Ce lo restituisce in opere originali ed emozionanti, capaci sempre di pungolare la nostra attenzione in maniera costante e rinnovata. Gli oggetti normali diventano arte speciale. Perché l’arte fa così, ci prende in contropiede, appare dove non ce l’aspettavamo, sposta il limite sempre un po’ più in là, è una disciplina indisciplinata perché sostituisce il certo col relativo.
Qualcuno potrebbe dire che Fabrizio D’Ottavi sia un figurativo. Per me è un abile smaterializzatore. Ci spiazza affinché possiamo ripartire dalle sue opere a modo nostro, interagendo senza subire. E l’operazione diventa più semplice proprio perché si parte dal dato concreto della realtà.
Picasso una volta disse “Dopo tutto un’opera d’arte non si realizza con le idee, ma con le mani”. E quelle mani, Fabrizio, sa usarle proprio bene. Anche quando reinterpreta le illustrazioni di Norman Rockwell, già di per sé eccezionalmente comunicative. Nostre. Parte dell’immaginario collettivo. Il suo tratto è per tutti noi immediatamente riconoscibile. Un amico d’immagini. Un fotografo col pennello. Una stanza in cui ci sentiamo a nostro agio. Rockwell cominciò giovanissimo a disegnare copertine di riviste famosissime (ad esempio il Saturday Evening Post) e, facendolo, ha raccontato l’America. Lo ha fatto per tantissimo tempo, dal 1916 al 1976. Un artista fedele a se stesso che ha guardato con amore e freschezza la realtà. Lo stesso approccio di Fritz.
Per questo lo ama molto e lo cita. Perché ne apprezza lo stile e il fatto che ha fotografato la vita quotidiana di un’intera epoca. Perché Rockwell illustra noi.
Proprio noi, colti in mille sfaccettature. E Fabrizio, prima in acrilico su legno e poi a olio su tela, ha riprodotto quelle trascrizioni fedeli e poetiche della realtà, consapevole di quanto sia complesso far sembrare intensa e ironica, semplice e lirica la banalità delle nostre azioni giornaliere.
Fritz ha omaggiato Rockwell in una personale a Roma nel 2004, una delle tante esperienze che costellano la sua carriera artistica, fatta di mostre, laboratori, botteghe. Un artista che impara sempre qualcosa di nuovo.
Che si sporca le mani. Perché come dice W. Gropius “in rari momenti l’ispirazione e la grazia dal cielo, che sfuggono al controllo della volontà, possono far sì che il lavoro possa sbocciare nell’arte, ma la perfezione nel mestiere è essenziale per ogni artista. Essa è una fonte di immaginazione creativa”.
Se volete stupirvi, se volete disubbidire allo sguardo solito sulle cose, se volete scoprire come fa l’arte a diventare pane quotidiano, sedia, valigia, triciclo, banco di scuola, tazza di tè, macchina fotografica, azione cercate Fabrizio D’Ottavi.
Di quest’anno (2010) è l’esposizione delle sue Collezioni di Modernariato in pittura presso Spazio Novecento, nella sua città, a dimostrazione di come per lui l’approccio artistico sia quasi ciclico, fatto di vecchie passioni che tornano, mai dimenticate, per essere contaminate con ciò che nel frattempo D’Ottavi ha respirato e vissuto.
Arte che non ha paura di cambiare espressione per corrispondere sempre al meglio allo stato d’animo attuale di chi la crea. È cresciuto nella grafica e nella scenografia, ma il vero salto tecnico artistico lo deve alla scuola della Pittrice Elena Tommasi Ferrone, una grande Maestra d’arte che nel suo studio a piazza Spada ha colmato lacune del giovane artista e spronato la sua arte. Ecco chi è Fabrizio D’Ottavi.
Un uomo che fa costante amicizia col suo essere artista, riscoprendosi di continuo. Perché “l’artista non è un tipo speciale di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di artista” (Ananda K. Coomaraswam).
Federico Moccia